23/05/2006  al 09/06/2006

ROSELLA RESTANTE: QUEL CHE RESTA DEL VUOTO

A cura di: Loredana Rea

ROSELLA RESTANTE: QUEL CHE RESTA DEL VUOTO

Il vuoto è grandezza. È come l’uccello che canta spontaneamente e s’identifica con l’universo.

Chuang – tzu, Cielo e terra

Anche ad una prima occhiata, sia pure soltanto superficiale e fugace, ciò che colpisce nella ricerca di Rosella Restante è la capacità di operare all’interno del linguaggio dell’arte contemporanea con una profondità sistematica, e talvolta persino sconcertante nella sua assoluta levità: tanto che pur non rinunciando a fare propria la densità complessa di un pensiero filosofico, desiste però dal trasferirla nell’opera, per seguire l’ineludibilità del desiderio di costruire attraverso l’arte un dialogo con la realtà.

Le sue opere sono attraversate, pervase e invase esclusivamente dalla straordinaria quotidianità del reale, che occupa panteisticamente ogni spazio, invade i luoghi del disegno e domina i segni.

Ad interessare l’artista non è però il carattere fattuale e aneddotico degli accadimenti, la loro estrema e talvolta irritante visibilità, quanto piuttosto la loro qualità emotiva, la loro capacità di trasformare il rumore in trepidante silenzio, di sospendere l’eterno fluire dell’esistenza per tornare a sbalordirsi anche dei piccoli eventi e sfuggire al dolore sordo di una vita fatta di incomunicabilità.

La complessa molteplicità della realtà è allora inevitabilmente sottoposta a un processo di continua sublimazione, è essenzializzata, ridotta a pochi segni che emergono improvvisi dalla superficie, tanto che il suo linguaggio, lentamente elaborato e faticosamente costruito su di un misuratissimo processo di sottrazione, di riduzione di sé, rinuncia quasi completamente all’intrinseca sensualità del colore e si affida al bianco dello sfondo e al nero della fusaggine, che contengono già tutti i colori. Non ne occorrono altri: il bianco, rappresenta l’universo stesso e il nero nelle sue infinite sfumature le forme che in esso appaiono e poi scompaiono senza soluzione di continuità. L’uno è simbolo concreto del vuoto inteso come totalità di tutte le forme visibili, mentre l’altro è la materializzazione di tutto ciò che la sensibilità dell’artista riesce ad evocare.

A partire dal bianco e dal nero Rosella Restante ha elaborato una installazione concettualmente complessa ma ricercatamente elementare nella sua concretizzazione, che si pone come significativa riflessione sulle differenti concezioni della materia e dello spirito in Oriente ed Occidente, per cercare una conciliazione, segretamente consegnata all’osservazione del reale, al dualismo intrinseco al pensiero occidentale, in cui pieno e vuoto, visibile e invisibile, essere e non essere si contrappongono spesso in maniera drammatica.

Pochi sono gli elementi che la compongono: nel minimale bianco e nero della galleria, si inseriscono due grandi interventi realizzati a fusaggine su tela bianca, mentre al centro sono poste tre emergenze scultoree. Sulle tele, tese a ricoprire completamente le pareti prescelte, lascia apparire segni neri che evocano l’intrecciarsi dei rami di alberi frondosi, il fruscio sommesso delle foglie che vibrano al vento, la luce del sole che si insinua negli interstizi per disegnare altre forme, fatte di immagini semplificate, fino quasi a diventare schemi simbolici, pittogrammi orientali, che pure combinandosi conducono inevitabilmente alla familiarità con le cose, alla somiglianza. Le sculture di ferro, simbolici moduli di quell’unità di misura che le permette di tracciare le coordinate dello sviluppo dello spazio, sono sia proiezioni di luce sulla parete, sia sedili che non possono essere fruiti come a sottolineare emblematiche assenze. A dominare è uno studiatissimo senso del vuoto, che non si presenta però nella vacuità del nulla ma nella pienezza vitale che dà origine a tutte le forme del mondo, offrendo alla creatività sempre nuovi stimoli.

Rosella Restante, compiendo un difficile ma appagante approdo nella molteplice pienezza del pensiero filosofico orientale, ha costruito uno spazio poeticamente vuoto, in cui ogni cosa, anche i segni più piccoli, sempre irrevocabili e ben assestati, contiene e allo stesso tempo rinvia alla pienezza della realtà esterna, perché ciò che interessa l’artista non è la rappresentazione, né la restituzione mimetica del reale, ma la possibilità di cogliere il senso che lo anima, identificandosi con esso per superare l’inquietante precarietà che lo pervade.

 

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