01/10/2002  al 18/10/2002

RITA MELE: Corpo dedalo: rosso

A cura di: Loredana Rea

RITA MELE: Corpo dedalo: rosso Hanno sempre una forte, profonda motivazione di senso - tant'è che su di esse insiste, e specialmente lavora, la psicologia dei colori - le monocromie di pittura. E qui infatti il rosso, che segna ossessivo le lastre tipografiche restaurate e riusate per l'installazione, non può che richiamare, e lo fa a gran voce, il corpo. Anzi: la messinscena, con le tre pareti da scatola prospettica ricoperte dalle sequenze dei pannelli, così che s'apre allo sguardo una stanza rossa, che ti prende e ti stringe misteriosa e inquietante quanto una cavità infera biffata dalle fioche luci rosse di una camera oscura, è quella, la messinscena, di un interno da esplorazione endoscopica, di un habitat fatto di cunicoli e di vasi, di viscere nelle quali il corpo si dichiara pura nudità e inconcussa assolutezza corporale. Desumerne che non sono represse, ma invece ascoltate e assecondate, le esigenze di dar mostra e dire del sé, mentre si fanno parlare reperti della riproducibilità tecnica, dove ogni sé sembra alienato, questo mi pare possibile, finanche altamente probabile. Rita Mele si vale di strumenti anonimi e oggettivi, quali i supporti di stampe tipografiche, non per un'operazione di bricolage autoreferenziale e senza scopo, ma per convocare e rappresentare la sua soggettività. Ovvero il suo "corpo", richiamato a gran voce dalla monocromia rigorosamente ribadita del rosso. È poi da imputare alla forza del destino - o a quanto i surrealisti denominavano hasard objectif - che le stesse lastre, manipolate e assemblate per l'installazione, richiedano il rosso come il colore più consentaneo, o meno refrattario alla materia di cui sono composte e al trattamento chimico che hanno subito. Di fatto anch'esse, resti e ormai dismesse testimonianze da archeologia industriale, a ben vedere hanno un'anima o una storia o un corpo che ha vissuto e riaffiora col rosso, magari in tracce di un'immagine che è stata, di un profilo che residua in aloni evanescenti, di una figura riflessa come in un negativo assai sbiadito, di una funzione assolta di cui rimane agli atti un burocratico dato d'archivio. Rita Mele perciò stende in filamenti il suo rosso e disloca le sue silhouettes immancabilmente monocrome, lasciando tuttavia intravedere, di quando in quando, alcune "preesistenze", per esempio una testa di Mozart - che le occorre, inoltre, per alludere alla musica e al ritmo della scansione seriale che definisce la sua opera - o, verticale sul pannello, un numero di produzione e di identificazione ancora stampigliato: insomma incrocia la sua soggettività con la "soggettività" della materia, la sua storia con un'altra storia concreta e materiale, la memoria che muove il suo progetto con la memoria anonima e collettiva che è delle cose e nelle cose. Incrocia, come si incrocia il dritto col rovescio: ovvero, componendo l'ordito con la trama, tesse e va costruendo a mano a mano il testo. Di tessitura (in questo procedere v'è la memoria della stagione della "lana", vissuta anni addietro da Rita Mele con una felice rivisitazione dell'arte povera) e di testo (al testo fa riferimento, confermandolo, la lastra tipografica riusata, che trattiene una involontaria memoria delle parole scritte e traccia un'altra linea di continuità lungo il percorso dell'artista: ora con le sue esperienze di arte materica più recenti, nelle quali prima il vetro, poi le superfici di zinco scavate dagli acidi si prestavano ad assemblaggi testuali), di tessitura e di testo qui si tratta, infatti. Ma è un testo, per ciò che si è detto, polimaterico e, per giunta, polifonico dacché intrattiene più memorie e più soggettività e più storie. È, come molti testi polifonici, un corpo labirintico, un dedalo rosso. Non si ritenga involontario aver scritto poco sopra "dedalo", lemma che si offre da cognome allo Stephan di Joyce. Nei fatti il corpo rosso di questa installazione di Rita Mele è come lo stemma o la mappa di un viaggio labirintico di cui è attore il personaggio silhouette, omino colorato di rosso, che tra più soggettività e più memorie appare e scompare, si raddoppia e si moltiplica, si cancella a tratti e si metamorfosa nei pannelli disposti in sequenza: un viaggio, come quello dell'Ulisse joyciano, senza inizio e senza fine, senza direzione plausibile e senza meta certa: un viaggio che assomiglia ad una infinita, inquietante partita di gioco dell'oca (e cito, del tutto volontariamente ancora una volta, un romanzo sperimentale italiano tra i più significativi del Novecento). Un viaggio che è anche, un po', una metafora della condizione nostra, e della nostra soggettività, e del nostro corpo, nel tempo di oggi: così sentiamo entrati nella camera di corpo dedalo: rosso che ci prende e ci stringe.

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