01/04/2008  al 18/04/2008

FERNANDO REA: Trasformazioni di terra di acqua di fuoco

A cura di: Loredana Rea

FERNANDO REA: Trasformazioni di terra di acqua di fuoco

Un homme qui n'a jamais tenté de se faire semblable aux dieux, c'est moins qu'un homme

Paul Valéry

Fernando Rea da quasi un ventennio lavora seguendo le complesse suggestioni offerte dalla mitologia, che rappresenta non soltanto la ragione di irrinunciabili impulsi creativi e inevitabili riflessioni teoriche, quanto piuttosto l'opportunità di esprimere il farsi e disfarsi delle cose, il muto dialogo tra visibile e invisibile, tra razionale e irrazionale e, soprattutto, la possibilità di costruire un sottile equilibrio tra passato e presente per cancellarne l'insanabile dualismo.

Nel corso di questi ultimi anni, infatti, il linguaggio elaborato ha finito con il mostrarsi come il risultato del difficile equilibrio tra la persistenza del passato e la necessità di rapportarsi con le problematiche del presente, tanto che per le opere realizzate a partire dal 2003 i riferimenti evidenti sono non al recupero del motivo archeologico, sia pure combinato con elementi di natura e provenienza differente, ma alla pubblicità, alla televisione ai codici comunicativi elaborati dai nuovi media, che seguendo le regole antiche di un rinnovato horror vacui ci martellano senza sosta con immagini accattivanti e allo stesso tempo terrifiche, patinate eppure vere. Le immagini veicolate dai mezzi di comunicazione di massa, e, quindi, parte integrante del nostro bagaglio visivo, sono spogliate, però, della banalizzazione generata da una reiterazione ossessiva, decontestualizzate e ricontestualizzate con gli strumenti dell'arte, per riscoprire le radici profonde, quella familiarità primigenia, troppo spesso ignorata, perché quasi completamente occultata dalle stratificazioni sociali e culturali, e ritrovare così le motivazioni di inesplicabili scelte esistenziali.

Superando con lucida determinazione gli inevitabili retaggi retorici ed ogni tentazione anche solo vagamente nostalgica, le opere si offrono allo sguardo come una particolare rilettura del passato a livello del contemporaneo. In esse ritroviamo la tradizione della pittura occidentale e la necessità di rigenerarla, avendo coscienza di quella pluralità di stratificazioni culturali che la caratterizzano, al punto che l'artista ha studiato e messo a punto una metodologia di lavoro innovativa, in cui le tecniche abituali: tempera, olio, pastelli si rapportano dialetticamente all'uso della fotocopia e dell'elaborazione digitale. In tutto ciò non c'è unicamente una tensione verso il nuovo, che pure è da sempre la spinta a pratiche progettuali assolutamente rivoluzionarie, né tanto meno la ricerca scontata di un sensazionalismo, che Rea ha sempre rifuggito a favore di soluzioni linguistiche capaci di palesare una profondità di sentire. C'è piuttosto il riconoscimento della necessità di considerare la creazione artistica come un'attività del pensiero, che lega indissolubilmente presente e passato, per dare all'opera uno spessore e un'articolazione complessa. Così il passato a contatto con i linguaggi della contemporaneità diventa una sorta di reagente chimico: i segni non restano pietrificati nel tempo storico in cui sono stati creati, ma riattualizzati dall'energia dell'artista che ha fatto propria la densità di una riflessione filosofica e l'ha poi trasferita nell'opera, senza alterarne o comprometterne la natura esclusivamente visiva, in cui a dominare è la pervadente sensualità dell'impianto pittorico.

Il nucleo di partenza di questo ciclo di lavori recenti, costruiti a partire dall'idea della continua trasformazione degli elementi naturali, di un'energia che tutto permea rinnovandosi incessantemente, sono le immagini che scandiscono lo scorrere quotidiano della vita con la loro scontata normalità o straordinaria eccezionalità, frammenti presi dai giornali e strappati agli accadimenti dell'esistenza, intorno cui Rea lavora a creare seducenti commistioni, raffinate decontestualizzazioni e intriganti alterazioni dell'immaginario comune, per riallacciare i fili sottili ma tenaci di un racconto senza tempo, in cui ritrovare il sapore inconfondibile di un'iniziale armonia e il senso oscuro di storie antiche che nascondono verità attuali.

Manipola, stravolge, ritocca, dipinge, taglia, assembla, riprendendo anche motivi già sperimentati nelle sue macronature degli anni '70, per ottenere stratificazioni di segni e costruire piani cromatici di grande impatto visivo, con l'obiettivo di riappropriarsi del mito, inteso come l'originaria identità culturale cui fare riferimento, così da evitare una spersonalizzante quanto sterile omologazione, troppo spesso prodotta dall'inarrestabile processo di globalizzazione arrivato a compimento in questo nostro tempo.

Negli ultimi due decenni, in cui linguaggi diversi si sono intrecciati e sovrapposti a generare continui, stimolanti e scompaginanti sconfinamenti, Fernando Rea ha scelto di ripensare alla classicità in una prospettiva critica, in cui i termini di tradizione e di sperimentazione sono intesi come complementari, non come contraddittori. Non rappresentano i due poli di un'irrisolta contrapposizione, ma devono essere interpretati l'uno come esigenza di rapportarsi costruttivamente al passato per riflettere sul presente e, magari, ipotecare il futuro, l'altro come necessità di cogliere le motivazioni profonde delle pratiche espressive e le direzioni delle linee di ricerca che attraversano la contemporaneità.

Relazionarsi con la tradizione non significa, quindi, ritorno citazionistico al passato, quanto semmai la volontà di assumere le proposizioni teoriche e le pratiche formali precedentemente elaborate come realtà di partenza, per legare in maniera inscindibile la necessità di coniugare la storia con il bisogno profondo di cambiamento e rinnovamento. D'altra parte la sperimentazione è intesa come possibilità di trasformare creativamente le sollecitazioni provenienti dalla vita quotidiana e dall'arte stessa, e non come vuoto esercizio sull'esasperata ricerca del nuovo.

Le immagini di Virbio, di Narciso, di Orfeo, di Persefone e Danae, attraversate, pervase e invase dalla natura, che occupa panteisticamente ogni spazio, influenzando l'impianto del quadro e lo sviluppo dei segni, per alludere all'inarrestabile ciclicità che domina lo svolgersi dell'esistenza, si presentano, allora, non solo come memoria di una cultura atavica completamente sopraffatta dalle strutture sociali e ineludibile opportunità del ritorno alle origini. Si offrono piuttosto come i risultati di un solitario cammino iniziatico, come i segni emblematici della necessità della riscoperta di sé e, conseguentemente, dell'accettazione delle ragioni dell'esistenza, per comprendere l'iniziale unità tra l'uomo, la realtà fenomenica e la vastità del cosmo.

Per questo motivo quelle realizzate sono opere che vivono totalmente in quel tempo prossimo e contemporaneamente remoto che è la dimensione del mito, in cui l'inconscio collettivo, con il suo incontenibile flusso di ricordi oscuri e apparizioni enigmatiche, ritrova e rinnova vitalità e potenza, ma senza alcuna contraddizione appartengono anche al presente, cui alludono con la fertile contaminazione di linguaggi generati dalla cultura multimediale e metropolitana e l'esigenza della riscoperta delle radici della propria identità. 

Del mito conservano intatti l'inconfondibile accento ieratico e solenne e, soprattutto, quella particolare fascinazione che nasce dalla fertile unione tra la vocazione narrativa e la capacità evocativa. Della contemporaneità mantengono inalterata l'esigenza di una contaminazione visiva coscientemente perseguita, perché il nodo nevralgico della riflessione di Fernando Rea non è l'antico in sé, quanto piuttosto l'idea che la società contemporanea ne ha, quella di un complesso à rebours, di un riappropriarsi della radice delle cose per comprendere l'inesplicabilità del tempo presente.

 

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