04/06/2013  al 21/06/2013

Immacolata Datti. Senza tempo

A cura di: Loredana Rea

Immacolata Datti. Senza tempo

La mostra è il settimo e ultimo appuntamento di Itinerari per viaggiatori distratti, ciclo di approfondimento, ideato dal critico Loredana Rea con l’intento di riflettere sul ruolo dell’arte, sul suo valore e sul suo campo d’azione.

 

TEMPO SENZA TEMPO
Il bosco sacro di legno e argilla

Il tempo nacque con il cielo, affinché, nati assieme, assieme
anche si dissolvano, se mai debbano dissolversi.
Platone, Timeo, 38b

Nelle sculture recenti di Immacolata Datti la terracotta, materia espressiva d’elezione, si combina al legno, per dare forma a un immaginario, che nel mito affonda le proprie radici, rafforzando le ragioni di una creatività che sempre ha seguito le suggestioni profonde di un sapere antico. Entrambi rappresentano essenza, qualità e fenomenologia del macrocosmo, tanto che nelle più importanti cosmogonie l’una e l’altro racchiudono il segreto del farsi dell’esistenza. Se, infatti, nell’atto di improntare la terra con l’acqua si rintraccia l’origine della vita e nella cottura il segno della primeva organizzazione della quotidianità, il legno è la materia prima, celando in sé una saggezza e una scienza sovrumana.
Ad affascinare l’artista è la possibilità di suggerire attraverso essi l’esistenza di una dimensione senza tempo, in cui riconquistare la coscienza dell’impossibilità di separare uomo e natura, e lasciare riaffiorare alla superficie ierofanie tralasciate, simboli degradati, significati obliati, per infrangere l’inerzia della quotidianità e accedere a una dimensione altra, in cui la vastità del cosmo e la finitudine dell’essere si riverberano l’una nell’altra.
L’intento è ritrovare le certezze che fuggono via, fagocitate dalla complessità di una contemporaneità che conserva brevemente la memoria dell’accadere, illudendosi di non dover scendere a patti con la storia, ma solo con l’immediatezza di una realtà, incapace di sfidare il tempo e quindi di offrire accoglienza alle inevitabili fragilità dell’essere.
Per questa esposizione Datti ha dato vita a forme ibride di grande fascino, che inglobano le allusioni alla necessità di ridiscendere alle fonti più profonde della vita organica, per comprendere l’inscindibile connessione tra l’esistenza dell’uomo e la forza dell’assoluto.
Partendo dalle Metamorfosi di Ovidio, ha costruito un racconto ammaliante, che a ognuno offre la possibilità di scoprire il sottile equilibrio tra il tempo passato e il presente, materializzando l’inarrestabile divenire delle cose in immagini elementari eppure pregne di una molteplicità di rimandi. Frammenti figurativi, capaci di concretare il dialogo tra visibile e invisibile, tra finito e infinito, si innestano su strutture che tradiscono un impianto architettonico, come se la natura si fosse riappropriata di ogni spazio antropizzato, rendendo nuovamente comprensibile l’inarrestabile ciclicità che domina lo svolgersi dell’esistenza. Sono opere che nella dimensione del mito hanno trovato forza e vitalità, conservando inalterate la vocazione narrativa e la capacità evocativa, a cristallizzare in uno spazio circoscritto eppure emblematicamente sconfinato l’insopprimibile esigenza di sondare il significato di valori, custoditi nell’oscura profondità della memoria ancestrale.
Quello che Immacolata Datti ha costruito è, infatti, una sorta di bosco sacro, in cui gli alberi creati con rami e tronchi di recupero attraverso calibratissimi interventi di ceramica acquistano nuova forma, materializzando la presenza di Dafne e Apollo, di Mirra e Adone, di Atti e delle Eliadi, le inconsolabili sorelle di Fetonte o alludendo alle Esperidi e con il ramo d’oro a Diana Nemorense. È un temenos, un recinto rituale, in cui si compie la congiunzione tra l’uomo e l’incommensurabilità dell’universo. Un luogo dello spirito, più che della geografia, in cui è possibile afferrare al di là delle apparenze l’inesplicabile articolazione del quotidiano, per portare alla luce i legami che nella primigenia unità uniscono cosa a cosa e raggiungere la comprensione della realtà, sentita inevitabilmente come rispecchiamento delle profondità interiori.

 

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