27/04/2004  al 14/05/2004

Antonella Capponi "di Vâyu e degli altri venti"

A cura di: Ivana D'Agostino

Antonella Capponi  "di Vâyu e degli altri venti" Le questioni nodali attorno a cui ruota la sperimentazione artistica ormai ventennale di Antonella Capponi, tendono a sviluppare concettualmente la dimensione spazio temporale attraverso la realizzazione di opere scultura, i cui elementi di trasparenza, ottenuti con colle industriali incolori, suggeriscono possibile l’attraversamento dello spazio fisico per un oltre. La combinazione costante da lei messa in atto tra percezione visiva e riflessione mentale, non accidentalmente già nel 1994 le fece realizzare Finestra: occhio aperto su di un mondo misurabile di albertiana memoria, ma anche luogo, spazio di comunicazione tra la realtà esterna e quella interiore. Le Finestre di Robert Delaunay, mediandolo da Leonardo, assumevano anch’esse un significato simile; che nella Capponi, per la scelta di materiali di esclusiva derivazione industriale – colle ottenute per sintesi chimica, laminati plastici, lastre di plexiglass, tubi al neon – spostano logicamente l’interesse più su certi aspetti contemporanei della ricerca avanzata, che con la matrice delauniana, e non solo, mantengono tuttavia un comune interesse fondato sull’uso della luce. La luce, infatti, è dinamica fondamentale costantemente messa in gioco per realizzare le sue opere scultura passate e attuali. Come si verifica con i Venti, soggetto su cui lavora ormai da tre anni ispiratogli dalle letture di Storia degli Angeli di Marco Bussagli e da Il libro del vento di Lyall Watson, con cui l’artista costruisce l’ulteriore tassello di una ricerca di taglio spiccatamente concettuale, ormai giunta ad un livello di considerevole maturità. Avvalendosi della sua caratteristica sperimentazione sulla trasparenza ottenuta con diaframmi incolori incapsulati tra lastre di plexiglass, la Capponi realizza tra l’inizio del 2003 e il 2004 quattro opere studiate appositamente per la mostra ispirate a Vayu, Bòrea, Zèiro, Noto: venti favorevoli all’uomo, portatori di messaggi, proprietari del cielo e respiro del mondo. I venti, per le civiltà legate al mare, come quelle greca e romana, scandivano ogni fase dell’esistenza e delle attività prevalentemente svolte, quali l’agricoltura, il commercio e la navigazione. Figli di Astreo e di Eos, Bòrea, Noto, Zèfiro ed Euro – quest’ultimo vento verrà realizzato per un prossimo evento espositivo –, in entrambe queste culture erano considerati venti propizi all’uomo e garanzia di una tranquilla navigazione per la loro precisa identificazione con i punti cardinali. Non ne è casuale quindi la scelta da parte di un’artista che da sempre pensa lo spazio attraverso coordinate orientate e orientabili viste come tracciati di connessione tra spazio fisico, cosmico e interiore. E d’altronde la stessa natura mitica attribuita ai venti dalle culture antiche, al di là delle considerazioni puramente metereologiche che li potevano valutare più o meno benignamente a secondo dell’azione svolta sul mantenimento del ciclo vitale e delle attività umane, attribuiva loro il compito celeste di conduttori di anime. Risultando quest’ultimo attributo comune anche alla cultura indiana, nell’ambito della cui speculazione vedica, Vayu, originariamente l’anima, dopo la morte del corpo, si trasforma in vento che tutto purifica. Vayu, l’angelo vento, sovrano del campo sottile, a lui, per la sua caratteristica di spirito guida, la Capponi affida l’orientamento spaziale della galleria collocandolo al centro del campo visivo. E’ a lui che è delegato indicare la direzione degli altri venti disposti in sequenza antioraria: Bòrea vento del nord, seguìto da Zèfiro vento dell’ovest e da Noto vento del sud. Ognuno di essi assume forma analogica in elementi scultura di grande formato rettangolare profilati di laminato plastico, alla cui base, luci al neon di colori diversificati secondo la direzione cardinale da cui spira il vento, illuminano diaframmi incolori che l’artista suggella tra due lastre di plexiglass. L’elemento luce si è detto fondamentale per la ricerca della Capponi, tanto più nello specifico di soggetti così particolari, di per sé incorporei. Illuminati dal basso in uno spazio fisico altrimenti annullato per l’intenzionale assenza di luce diffusa ambientale, i diaframmi incolori a cui la Capponi affida la forma dei venti, assumono consistenze che esulano dalla pura riconoscibilità, poiché investono il suo mondo interiore – analogamente a quanto già riscontrato con la Finestra del ’94 – impegnandone l’intelligenza, l’intuito e le capacità immaginative. E’ così che Bòrea, l’asciutto vento del nord il cui soffio potente gli ateniesi identificavano con lo stesso Zeus, illuminato dalla luce fredda di un neon bianco, evidenzia nella trasparenza della sfilacciatura delle trame della colla come lacerazioni di nubi strappate dalla violenza del suo urlo. Increspature dovute alla brezza che spira da ovest – il cui andamento la Capponi ripercorre nelle pieghe leggere direzionate da sinistra – sono invece quelle di Zèfiro, vento identificabile con la rinascita della natura – non casualmente presente anche nella neoplatonica botticelliana Primavera -, che per questo è illuminato da una luce sottilmente verde che ne esalta, nel diaframma incolore, i movimenti appena accennati. Il colore attribuito ai venti, denotativo simbolicamente di valenze fredde o calde in relazione all’area geografica da cui spirano colora di una luce rossastra Noto, i cui cretti diffusi, precisamente evidenziati con la trasparenza delle colle-diaframma in controluce, sottolineano la sua origine di vento afoso, che soffiando da sud spacca e inaridisce la terra. Ma tutto questo, al di là dell’indiscutibile origine di matrice concettuale, reiterata più volte come premessa operativa costante della Capponi, la porta oggi verso traguardi più liricamente concepiti per il superamento dei confini fisici dello spazio per un oltre, malgrado le premesse, seppure più rigidamente concepite, fossero già tutte date nel ’94 con i lavori presentati ad Ascoli Piceno per la mostra Cronotopo. Già allora Antonella rifletteva sull’essere in uno spazio delimitato fisicamente ma mentalmente percepito come infinito, con ciò indicando la convenzionalità del limite imposto alla vista in quanto “là dove l’occhio non giunge con l’osservazione supplisce la mente integrandone le lacune”. E se con questo ritorniamo a Leonardo e alla tematica delle Finestre, che partendo da quella albertiana arrivano a Delaunay e alla Finestra di Antonella – facendo i dovuti distinguo, naturalmente, ma sottolineandone il principio comune -, diamo anche, attraverso queste premesse e riflessioni, la giusta valutazione del respiro poetico di queste opere scultura nel restituire quanto di più astratto, incorporeo e impalpabile si potesse realizzare. La luce, illuminando in trasparenza le trame sfilacciate e i cretti dei diaframmi incolori, materializza in forme analogiche i venti pensati dall’artista come sensori di percorsi immaginativi e intuitivi disposti oltre la realtà percepita, e percepibile.

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